Sensi di colpa e Amore

Diventi adulto quando ti assumi la responsabilità di deludere i tuoi genitori. Quando accetti il rischio di ferirli, di contrariarli, di contraddirli.

Quanto amore dietro le scelte più banali, quanta gratitudine al dì là delle decisioni più rimuginate?

Le donne della mia vita sono mondi imperfetti nei quali amo perdermi e ritrovarmi; sono occasioni di profondità e, anche se non lo sanno sempre, loro sono il mio oceano, il mio abisso, ed io faccio sub. Ho imparato che il loro buio è il mio buio e mi piace: poter abbracciare da fuori un problema, intravvedere una soluzione e metterla in pratica nella vita, la mia.

I viaggiatori hanno occhi grandi e, spesso, valigie di sensi di colpa.

Perché partire non è solo comprare un biglietto aereo, ma anche lasciare la casa del sangue e la società in cui essa è inserita per cercare di giocare con altre regole, le tue e per provare a stare ad un altro passo, il tuo.

“Diventi adulto quando ti assumi la responsabilità di deludere i tuoi genitori” perché in fondo ciò che ogni figlio vorrebbe è amore: vuole sentirsi accettato e degno di quel primo micro mondo che è la famiglia, vuole che si sia orgogliosi di lui e forse, per un certo periodo, che loro siano orgogliosi di noi è più importante che esserlo noi di noi stessi.

Poi, capita, che uno si accorge che più cerca di stare a quel passo più affanna. Capita che sei arrabbiato, sempre, e non sai più perché. Succede che nulla ti emoziona, che tutto ti annoia, e sei semplicemente stanco. Di te.

Ti rendi conto che quel senso di colpa in cui inciampi quando vai oltre l’affanno, la rabbia o la noia, è un profondo ma limitante amore.

E’ un rito di passaggio, una catarsi. Ti rendi conto che volente o meno non potrai mai essere perfettamente “come pensi loro ti vogliano” anche solo perché fate parte di due generazioni diverse, perché il posto fisso o la casa di proprietà non sono più l’obiettivo primario della società in cui vivi. Finisce che ti trovi di fronte alla scelta di essere genitore di te stesso.

Ti rendi conto che è tempo di sollevarli dall’incarico per quanto destabilizzante possa essere.

Licenziare i propri genitori dal ruolo di “detentori della verità” non è un atto teatrale esterno, non prevede urla o discussioni ma la presa di consapevolezza interna che è tempo per il Sé di riappropriarsi del suo potere, una atto di responsabilità, il decidere o forse, il semplice rendersi conto che alla fine del viaggio, nella solitudine degli ultimi istanti, l’unico giudice presente sarai tu. Tu solo osserverai la tua vita e saprai se è stata davvero una di quelle che valeva la pena vivere.

Renditi orgoglioso. Renditi felice.


Ci fu un attimo di silenzio.

“Ma sei completamente impazzito?” chiese poi rianimandosi all’improvviso. “Con la crisi che c’è in giro lasci un lavoro in banca? Ma sei scemo, Luca? Che ti passa per la testa? Cristo santo, che follia è mai questa?”

“E’ una follia, si. Ma è la cosa giusta. E’ l’unica cosa giusta”

“Luca dimmi che è uno scherzo” disse mia madre con un filo di voce.

Mi avvicinai a lei e le presi le mani nelle mie. Mi ero preparato con sofferenza a quel momento.

“Mamma, voglio che mi ascolti bene. So che tutto questo ti sta agitando molto. So che ti comporti in questo modo perché mi vuoi bene. So che cerchi di proteggermi…ci hai sempre provato. Ma non sono più un bambino. Sono un uomo adulto. Accettalo. E accetta il fatto che non tutto debba sempre andare come vorresti tu. Le tue priorità non sono le mie. Ciò che per te è importante magari non lo è per me..ma lo rispetto comunque. Ti chiedo di fare lo stesso: anche se ora non lo capisci, anche se ti sembra che io stia buttando via la mia vita, ti prego di capirmi. Non ostacolarmi. Non supportarmi, se non vuoi o non ci riesci. Ma non rendere tutto più difficile di quanto già è.”

Glielo dissi guardandola negli occhi. Lei non distolse lo sguardo neanche per un secondo. Poi mi rivolsi a entrambi.

“C’è una cosa che ho capito solo recentemente, ma ci credo molto…chi ti ama davvero vuole vederti felice, anche se ciò significa lasciarti andare. Chi ti vuole vicino e infelice, invece, ha a cuore solo la sua felicità. Non siate quel genere di genitori. Non vi ho mai chiesto niente, ma questa volta sì….siate felici di lasciarmi andare. Siate felici di vedermi partire…vi prego.”

Quando finii, mia madre disse solo due parole, ma furono la miglior dichiarazione di affetto che mi avesse mai fatto.

“Va bene.”

La ringraziai con gli occhi.

“Ma come, va bene?” chiese mio padre. “Questo si è licenziato per viaggiare e va bene? Ma che diavolo state dicendo? Siete impazziti tutti e due?”

“Tu non puoi capire” dissi a mio padre.

Mio padre fu colpito in pieno dalla mia risposta, criptica e al tempo stesso perfettamente comprensibile.

“Come vi dicevo, parto” ripresi. “Vado a Bali…”

“A Bali?” chiese lui sbalordito.

“…con un biglietto di sola andata” prosegui senza badare alla sua reazione. “Non so quanto ci starò. Non so ancora niente in realtà”

“Ma perché fai questa cosa?”

Guardai mia madre, e in quel momento mi parve più magra e fragile che mai. Nei suoi occhi, però, leggevo qualcosa che mi diede un gran coraggio: comprensione. Forse ciò che stavo facendo lo avrebbe voluto fare lei tanti anni prima. Scappare da mio padre, lasciarsi alle spalle il dolore e l’infelicità. Incredibilmente, fui grato a Sara di avermi tradito e aver scongiurato quello scenario. Con un anello al dito e un figlio, forse non avrei più potuto fare una cosa del genere.

“Scappo dalla mia infelicità. Scappo da Sara che mi ha strappato un sogno. Scappo da questa città che non ho mai amato. Sento il bisogno di scappare, andare lontano. Voglio stare un pò da solo, ma non qui. Con tutti i fantasmi che ho nella testa e con tutto ciò che ho intorno, non riuscirei mai a stare da solo. Ho bisogno di silenzio…ho bisogno di partire.”

Nessuno dei due disse più nulla.

Come una notte a Bali, Gianluca Gotto

Questo secondo Capodanno

Me lo immagino questo nuovo inizio, un secondo capodanno, la lista dei buoni propositi: più cura di me, più tempo di valore, più allenamento e più felicità, più investimento sui miei talenti.

Yeah! WOW!

Come no!

Quindi via di corsi di yoga e di crescita personale! Obiettivo la miglior versione di sè.

Yeah! WOW!

Ho pensato di stilare per voi, Cari, la mia personale lista delle più comuni tentazioni, dei tranelli interni ed esterni, in cui si può cadere nella scelta di una strada per la ormai inflazionata “Versione Migliore di Sè”, per evitare che nell’entusiasmo della ripartita la VMdS finisca per essere solo l’ennesima gabbia o frustazione.

Partiamo quindi con:

1. Chiarisci il tuo o i tuoi PERCHÉ

Cos’è il successo? Cos’è il talento per te? Cos’è la libertà finanziaria? Quali sono i modelli positivi a cui ti ispiri?

Se non abbiamo chiaro il perché e cosa stiamo cercando, rischiamo di andare incontro a delusioni e fraintendimenti.

Desidero un lavoro su di me accogliente e delicato? C’è Alice di Ritualmente. Ho bisogno di un taglio più maschile, pochi fronzoli e decine di articoli in cui sfogare la mia voglia di iniziare a capirci qualcosa, sempre con un occhio rivolto al fare? C’è Andrea Giuliodori ed Efficacemente. Sento che è il momento di entrare più in profondità, voglio un lavoro che mi impieghi tempo ed un bel pò di sforzo, d’indagine, di messa in discussione, con un pizzico di atmosfera magico galattica? Roberta Zanetti con Supernova. Poi c’è Cecilia Sardeo col suo taglio giovanile e Nicole Zunino col suo sorriso che affrontano la crescita di un business consapevole mettendo tutte le loro competenze in gioco, la community di Meverick’s di Federico Pistono e l’ironia di Just Mick.

Questi sono solo alcuni dei professionisti, la cui unicità, può aiutarci a far luce su noi stessi per ottenere la famosa vita che desideriamo. Solo se abbiamo ben chiaro che “così come non esiste un’unico tipo di pizza non esiste un modello unico di felicità uguale per tutti” ci concederemo del tempo per osservare le diverse alternative alla ricerca di cosa in questo momento è più in linea coi nostri valori, le nostre necessità ed i nostri bisogni.

Mal che vada si può sempre partire dal classico di Simon Sinek “Partire dal Perchè”, più d’ispirazione di così.

2. Avrai bisogno di investire spazio e tempo

Diffida da chi evita accuratamente di sottolineare che per ottenere qualche risultato bisogna rimboccarsi le maniche e metterci determinazione e costanza. Diffida dal “tutto e subito”, dagli estremi e dall’assolutismo sfacciato.

I migliori insegnanti non ti chiederanno di credere per fede ma ti inviteranno a mettere in discussione ogni tua certezza e provare a seguirli per un periodo medio lungo che va da un mese ad un anno.

Evita di pretendere da te stesso di imboccare la strada perfetta al primo colpo. Io non conosco nessuno che l’ha fatto, ma conosco invece moltissime persone che hanno passato i primi anni della ricerca a cambiare e provare, conoscendosi sempre un pò di più e scoprendo, lungo la via, che le prime esperienze erano spesso prese sull’onda di una moda, di un’idea astratta o di una “dis-conoscenza” di sé stessi.

3. E’ un investimento monetario

Così come non hai accesso gratuito alla palestra, allo stesso modo i migliori allenamenti per i muscoli interni sono a pagamento. La maggior parte dei personaggi di cui ti ho parlato sopra hanno canali youtube, account social o blog in cui mettono a disposizione strumenti gratuiti, nei quali puoi iniziare a familiarizzare col loro personale modo di affrontare i diversi argomenti e cercare di capire se ed in che ambito fanno per te, ma la vera differenza la troverai impegnandoti prima di tutto economicamente, compiendo una scelta ed impegnandoti a trarre il massimo da questa.

Quindi si alla lista dei buoni propositi, si alla voglia di uscire da questo periodo imboccando una nuova strada, si all’entusiasmo da sole cuore e amore ma sempre ricordando che la vera differenza, all’inizio di un cambiamento, la fanno le domande e la strada che si decide di percorrere nella ricerca delle proprie personali risposte.

Ritorni.

Caro Gesù, avrei voluto scriverti una bella lettera, egoista ed ironica, come quelle a cui ti ho abituato in questi anni ma. Ma oggi ti offro solo questa piccola speranza da portare con te, quella di poterci guardare con occhi nuovi. Buon ritorno a casa bro, anche sta volta tocca a te preparare la tavola.

La selva oscura. Ovvero quando l’Eroe pensava di averla fatta franca.

Sono morta e rinata mille volte, te ne sei accorta?!

Sei morta e rinata mille volte, me ne sono accorta?

Ci troviamo sul bordo di questo burrone, spaventate come fosse la prima volta, insicure, pregando sia l’ultima volta.

Eppure abbiamo l’armatura indosso da anni, se non si vede il sangue è per la polvere che impregna il metallo, per il sudore che si è fatto patina di cristallo.

Dietro lo scudo sorrido, quante volte abbiamo pensato di non averne abbastanza di forza, di non avere abbastanza di voce. Tenevamo lo sguardo fisso su ciò che pensavamo ci mancasse, sottolineando con la matita scura le occhiaie e le linee dei fianchi.

Sai, puoi dire che tutta questa insicurezza fa schifo, che tutta questa rabbia sembra distruggere la bellezza di ciò che un tempo coltivavi con amore, che il temporale che pensavi passeggero si è trasformato in grandine e sembra non rimanga più nulla da salvare.

Guardami negli occhi, sotto quella grandine che pare infinita ci sono anch’io, come te cerco rifugio, come te vorrei prendere un biglietto per Honolulu e fingere che quel campo distrutto non sia mai esistito, non esita, non esisterà.

Allunga la mano, si salta da soli lo sappiamo, tu hai pensato ad un doppio carpiato ed io ad una bomba di quelle con un sacco di schiuma, però la mia, di mano, la puoi stringere finché ne hai bisogno, finché ti và e quando ti và puoi lasciarla.

Nel bosco ogni albero cresce a modo suo, dà i frutti secondo la sua essenza quando si sente pronto, così anche per noi. E va bene così, tutta questa vulnerabilità va bene, anche la rabbia va bene, il bisogno di evasione va bene, stiamo radunando le forze, stiamo prendendo la rincorsa, stiamo riavvolgendo la matassa incamminandoci verso Casa, un passo alla volta, in quella selva oscura che è necessario attraversare.

“Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!”

I colori del vento cantava Pocahontas.

La mia famiglia delle volte sembra un po’ un casino, un vortice senza direzione, senza doni e, nei momenti bui, senza reali punti di contatto o appoggio.
Eppure, quando mi fermo e mi permetto di stare al centro, della mia vita, delle mie responsabilità, della storia, allora scopro che quella che in apparenza sembrava distanza è un divenire e se non ti vedo è solo perché devo volgere lo sguardo più in là o, delle volte, dietro.

Se mi immagino la mia famiglia del sangue come una linea retta posso sentirmi sola, ma se ricordo che siamo una spirale, che si dà forza e non ha paura di cambiare, allora posso sentirmi forte anch’io.

Disegnare l’albero genealogico, prendermi tempo per rovesciare i penneralli sul tavolo e lenta provare a mettere insieme i pezzi e soprattutto le emozioni, mi aiuta a chiarire il sentire. Come se provando, colorando, cercando di dare un senso armonico alle prime bozze, spesso solo razionali, io dessi valore a tutta quella storia che mi appartiene anche se mai sentita.

Riconoscendo le distanze, le perdite, le vittorie, le somiglianze, ogni piccolo sasso o fiore sulla strada, io onoro il percorso fatto e so che posso, libera da ogni credenza, fidarmi della mia capacità di trasformazione e così cambiare.

E cambiare diventa un obiettivo, perché non è più un cambiare in meglio o in peggio, ma è un lasciarsi vivere senza paura. Nella magia dell’inverno come nelle assolate giornate d’estate, con i rami pieni di fiori o spogli e nudi al vento.

Alla fine ogni famiglia è una foresta, un mare, un deserto. Non una specie ma un’intera biodiversità, nel senso proprio di coesistenza in uno stesso ecosistema di diverse specie animali e vegetali e di un equilibrio possibile solo grazie alle loro reciproche relazioni.

Come farsi amica una domanda per lasciar parlare il cuore. Ovvero l’ennesima lettera d’Amore alle donne della mia vita.

Riesci a vedere gli ostacoli come benedizioni?

Ci penso, mi prendo tempo eppure mi rendo conto di tutto il rancore che ancora covo al mio interno. Sorrido cercando di accettare che reagisco, ancora una volta, anche solo nel dialogo con me stessa, come una vittima e non come il regista della mia vita, come l’artefice del quadro.

Osservo la difficoltà. Consapevole di avere il potere di decidere con quali emozioni guardare al mio passato; un punto sfocato nel quale riversare rabbia o accettazione, senso di sconfitta o la consapevolezza di aver fatto il meglio possibile coi limiti e le convinzioni di chi ero allora.

Mi fermo da immobile. Seduta sul divano faccio un respiro profondo e raddrizzo la schiena.

Sarei disposta a lasciare ciò che ho ora?

Perché se riconosco la difficoltà di vedere tutti gli ostacoli come benedizioni, sono allo stesso modo certa dell’infinita gratitudine per tutto ciò che ne è venuto dopo. Penso al susseguirsi di Donne che, dal matriarcato di sangue in cui sono nata, sono arrivate nella mia vita, all’importanza che hanno avuto, agli insegnamenti che hanno portato e per quanto non mi veda ancora come la versione migliore di me, di certo nella loro presenza c’è la speranza che a poco a poco, a mio modo, io possa integrare e fare mia tutta la loro bellezza.

Sorrido. Gli ostacoli e le cadute del mio passato sono state grandi menate, alcune delle scelte che ho fatto decisamente pessime e fatte assolutamente col culo anziché col cuore. Però va bene così.

Finirò per sembrare ripetitiva ma se è servito ad avere Voi nella mia vita, posso decisamente accettarle.

Alla fine sarebbe stato come fermarsi al primo bel libro letto, certo mi sarei evitata testi di cui manco ricordo la trama, ma avrei perso Cesare Boni, la Pinkola Estés, Sibaldi, Terzani, Walsh, la Rowling e Philip Pullman. No way.

Forse delle volte basta solo prendere una piccola deviazione per far risuonare una domanda, rigirarsela tra le mani e lasciare che trovi l’angolazione migliore. Le domande sono porte, la chiave personale.

Boccioli al sole

All’interno del bocciolo c’è buio, il calore è tanto, è il fuoco della trasformazione, la spinta ad essere.

Il bocciolo è bellezza e colori in potenza, l’acerbità un’occasione di dolcezza.

Guidata dalle parole della Zanetti prendo ogni incompletezza come una possibilità, l’irritazione ed il giudizio lascio che diventino cenere, concime per la terra, nutrimento amorevole verso un’essere che è già perfetto così com’è, nel suo evolvere; nel suo procedere solo il ritmato andare dell’universo.

Allora ad occhi chiusi osservo la potenza del giudizio farsi accettazione, la procrastinazione e l’insicurezza sbocciare in gratitudine per ogni piccolo passo ed è meraviglia quando nell’oscurità lascio penetrare la luce ed una miriade di sfumature prendono forma dentro ed intorno a me.

Il lavoro c’è, la trasformazione brucia e la paura delle volte rende il buio denso, l’aria quasi irrespirabile e la voglia di spingere, di cambiare forma, viene quasi meno. Bisogna scegliere con cura il nutrimento ed affidarsi a lui nei momenti di sconforto. Ogni bocciolo diventa fiore, ognuno a suo tempo, ognuno coi suoi colori.

Lascio che fiducia e meraviglia mi guidino. Nel buio del bocciolo brucio, chissà che colori si imprimeranno su ogni mio petalo.

In Perfetta

Osservavo le nuvole nella mia piccolezza di Donna, una pausa dalla lettura vorace, quel bisogno di parole, di quel muto dialogare, che per me fanno dei libri una delle migliori compagnie possibili.

Stacco la testa per prendere fiato, mi accorgo del sapere che accumulo, della preziosa consapevolezza del tempo libero che posso scegliere di gestire, di ogni volta che rinuncio all’azione rifugiandomi tra le pagine. Se non nutro il corpo che almeno sia nutrita la mia testa. Discorsi approssimativi e pericolosi, la vita vera si conta in azioni mi dico.

Rischio di varcare la soglia che è il giudizio, quell’oltre fatto per abbassare ancor di più la stima in noi stessi, per metterci addosso quel senso di resa che ci tiene intrappolati nelle abitudini, nel conosciuto, nel “sono fatta così”.

Sono fatta così dice l’albero ed il seme, ogni germoglio sui rami mentre inesorabile sboccia e cade insieme alle foglie. Fatto così si, cambiamento, perfetto divenire.

Nel cielo si susseguono le nuvole, le macchine per strada, i rumori, i miei respiri. Decido che va bene, sono in-perfetta. Perfetta dentro.

Penso a quell’in che si fa colorato ed immenso, sorrido fiera della presa lieve dei miei pensieri, della possibilità concessa da un nuovo punto di vista e me lo ripeto ancora un volta. Vado bene così perché so di essere perfetta dentro, e tutto questo fuori?! Beh, è come una casa dalle buone fondamenta a cui serve una bella riverniciata, magari un cambio degli infissi e forse, perché no, anche una revisione degli scarichi.

Il discorso si fa diverso, tra me ed il cielo ormai senza nuvole; è un dialogo di volontà e perseveranza, di consapevolezza di tutte le comodità e definizioni che lascio che mi fermino, meno accusatorio ma molto più realistico, poco delicato forse ad un primo sguardo col suo agire responsabile e la presa del timone, ma dalla mia in-perfezione imparo a trarre la certezza che esiste un unico modo per sbocciare di primavera, il lasciarsi cambiare.

Lutti e nascite

E così alla vigilia della mia messa al mondo mi prendo un attimo, quasi fuori luogo, di silenzio. Me lo prendo dal ristorante e dalle comparse di un estate che vorrebbero una scusa per aprire bottiglie di prosecco, che francamente a me non piace, mi prendo un attimo anche dal compagno a cui devo profonda gratitudine, mi prendo o almeno cerco di prendermi un attimo anche da me, da questa testa che guarda ed osserva, da questo cuore che pulsa e dal respiro che riempie gli occhi.

Sospesa resto nella penombra, lascio che tutto ciò che sono sia, senza escludere nulla, dalla puzza di tabacco all’odore di palo santo e oli essenziali che pervade la camera ed i miei vestiti, dal lavoro di cameriera fino a quel dono di sentire oltre, ogni riga letta che mi è parsa più reale della realtà fino alle banalità in cui cado senza nemmeno accorgermene.

Dentro di me, al fianco, ancora una volta c’è quella presenza di Donne a cui vorrei assomigliare un po’. Sorrido pensando ai lati che abbiamo imparato a far coincidere, a quelli che voi stesse avete voluto rimanessero spigoli, fiere di quella diversità, di quel minimo punto di contatto. A ritroso penso al grembo che mi ha dato alla luce. Alla Donna, che prima di essere madre è stata bambina, ragazza, femmina, indipendente testarda, ai suoi sogni, a tutti i compromessi che sono venuti dopo, alla fatica, ai rospi, all’amore di quel dopo.

Ciao mamma, tra poche ore smetti di essere Donna e diventi madre. Nella tua testa chissà se ti immagini quante te ne farò passare, chissà se ci pensi a questa cuspide leone-vergine che tanto sogna quanto si arrabbia, chissà se ci pensi che oggi lasciando la tua femminilità nelle mani del mio mocio lasci indietro anche una parte di te. La mia nascita è un lutto, nulla di drastico, un cambiamento come tanti, ma ora io, nel mio essere Donna, ti riconosco. Tra poche ore, mamma diventerà il tuo nome, finirai per abituartici, finirai per pretendere di essere chiamata così in privato come in pubblico e non hai idea di quale sacrificio stai compiendo. Sacrificare viene da “rendere sacro”, oggi io faccio sacro il tuo Nome, anche se non mi permetterai di usarlo.

C’è un sacco di dignità nella storia che hai scritto, lo pseudonimo in copertina puoi lasciarlo andare.

Prendi giacchetto, metti giacchetto, togli giacchetto… Atteggiamento.

Ultimamente rifletto spesso sul cos’è un “atto di fede”.

Sono in una fase in cui l’aprirsi alla chiusura di cicli è, da una parte, un “credere nelle cose belle che Dio, o chi per lui, ha fatto per me in passato, sta facendo per me ora e farà in futuro” e, dall’altra, un razionale rendersi consapevoli di come la vita stessa sia un susseguirsi di cambiamenti: questa non è la prima fine e di certo non sarà l’ultima.

Per quando riguarda la Fede, essa si concretizza nel riconoscere la bellezza, nel credere e sapere di essere sostenuti sempre anche quando l’apparenza e l’identificarsi con oggetti e ruoli pare dirci il contrario. La perdita di aggettivi possessivi è ben più ostica di quanto ci piacerebbe ammettere ma il credere, nonostante tutto, è solo una scelta.

La razionalità, dalla sua parte, non mi permette di cadere in contorte lamentale: ci sono stati fatti e scelte di cui io sono responsabile, un presente che è tale per opera mia e a cui io solo posso rimediare. Ci sono situazioni che si sono ripetute, occasioni che ho lasciato passare, ma in nessun caso c’era un obbligo. Solo, nuovamente, una scelta da fare.

Mentre rifletto su questi due aspetti mi torna alla memoria quel famoso pezzo di Karate Kid “prendi giacchetto, metti giacchetto, togli giacchetto… Atteggiamento” e lui che fa quel sorriso forzato a 36 denti.

Ci sono momenti in cui ripeto a me stessa “fede è credere che Dio ti sosterrà affinché tu possa realizzare lo scopo della tua Anima e bla bla bla”, la ripetizione è silenziosa a 360°: potrebbe anche essere la ricetta delle polpette tanta l’indifferenza del mio cuore ed il mancato coinvolgimento dei miei sensi.

Questi sono i momenti in cui “faccio un giro più largo”: parto ricordando quante altre volte le cose sono cambiate e tutto ciò che di positivo c’è stato, e c’è sempre stato a ben guardare; poi ammetto a me stessa di avere paura ed elenco tra me e me le cose che temo o di cui mi dispiaccio cercando di rimanere in osservazione di cosa si muove perché sul fondo dei miei pensieri, dietro il muro che posso erigere con lamentele ed ansie, vedo pulsare chi sono davvero, vedo emergere i volti di chi crede in me, le possibilità che si aprono alle chiusure, vedo la “fede”. E la fede non è altro che un riconoscermi, è scegliere di scegliere.

Sono arrivata a pensare “all’atto di fede” come ad un ragionamento dell’Anima di fronte alle continui fini, così come per il bruco e la farfalla: ammetto l’incapacità di vedere oltre, la scarsa immaginazione, il limite del visibile, ammetto tutto questo e davanti alla fine scelgo di aspettare a sentirmi persa, tragicamente abbandonata o senza speranza. Però.

Però lo faccio nel Sentire del mio cuore, non permetto che sia una mera ripetizione ma un occasione di osservazione, vedo cosa provo pensandoci, dove tentenno e abbasso le sguardo. Mi ricordo dell’atteggiamento, anche se nel film non si facevano di certo tutto questo gran ragionamento.

L’atto di fede allora si dimostra tale non tanto in un’azione esterna ma, piuttosto, in una silenziosa ed interna, sincera e capace di essere salda.

L’atto di fede diventa così coerenza cardiaca (nel senso di atto allineato al cuore) non tanto perché è azione cieca sulla base di qualche supposizione ma proprio perché ci vede benissimo e sceglie.

Un atto di fede insomma si fa ad occhi aperti e forse bisognerebbe iniziare a correggersi e chiamarlo “un salto nella luce”.